Situato lungo l’Acquedotto Felice il quartiere Mandrione con la sua storia attraversa la capitale come la strada da cui prende il nome.
Segnato da alterne vicende, infatti, il quartiere offre uno spaccato di quello che è stato l’avvicendarsi sociale e di integrazione di Roma, mostrandosi ripetutamente come laboratorio di inclusione a cielo aperto.
Il nome secondo alcune fonti deriva dall’usanza di portare in quest’area urbana, ancora verde, le mandrie a pascolare. Occupata dagli sfollati del bombardamento di San Lorenzo nel 1943, il Mandrione fu poi teatro di degrado sociale fino agli anni ottanta, con baracche sotto i fornici, prostitute, rom e criminalità, che diedero alla zona una fama di luogo pericoloso e mal frequentato, dove però nacquero alcune delle più belle pagine di Pier Paolo Pasolini.
“Ricordo che un giorno passando per il Mandrione in macchina con due miei amici bolognesi, angosciati a quella vista, c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la casettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano. Vedendoci passare con la macchina, uno, un maschietto, ormai ben piantato malgrado i suoi due o tre anni di età, si mise la manina sporca contro la bocca, e, di sua iniziativa tutto allegro e affettuoso ci mandò un bacetto. […] La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto”.
(Pier Paolo Pasolini, “Vie Nuove”, maggio 1958)
Non solo Pier Paolo Pasolini: il Mandrione con le sue contraddizioni, le sue istanze, la sua decadenza e i suoi conflitti sociali, entrò senza dubbio nell’immaginario di tanti, tra cui il giornalista Edoardo Albinati.
“Mandrione è prima di tutto un nome. Praticamente nessuno a Roma che non sia un archeologo o un carrozziere o un pappa o un impiegato della Banca d’Italia (vedremo poi perché) ha una percezione chiara di questo luogo, ma il nome sì, il nome produce una strana eco e uno si ricorda di esserci stato, magari una notte, in un tour avventuroso… I falò delle prostitute, le grandi sagome buie degli acquedotti che si accavallano l’uno sull’altro, i treni che ti sfrecciano sotto i piedi… Pasolini, il cinema… gli zingari… […]. Il Mandrione era famoso, anzi mitico per la baraccopoli. E per gli zingari per lo più Rom abruzzesi che vennero ad abitarci tra le due guerre. Fu materia di varie indagine sociologiche, tra cui una bellissima ricerca di Franco Pinna che ci tornò a fotografare nel 1956 e nel 1968. […] ancora quand’ero ragazzo io e ci passavo col vespino per le trasferte calcistiche o musicali, me lo ricordo come un posto brulicante. Ora è quasi deserto. […] Ora siamo nella zona più misteriosa del Mandrione. Il piano stradale si alza per cui le arcate si fanno basse, nane. Molte all’interno sono piastrellate, intonacate, dalle tamponature sbucano ancora gli attacchi dei cessi divelti, dei lavandini. Altre sono sbarrate da reti e ondulati metallici. Qui ci abitava un sacco di gente.”
Se oggi il Mandrione appare come uno spaccato urbano ordinato, grazioso e luminoso, lo si deve all’opera di recupero sociale attivata da Angelina Linda Zammataro – nota anche come Linda Fusco – nella seconda metà degli anni Settanta.
Psicologa, pedagogista, fondatrice del metodo della psicoanimazione, Linda Zammataro – durante la sua sperimentazione presso la scuola elementare Cagliero che copriva le aree dell’Appio Tuscolano di Roma – entrò in contatto con le realtà abitative del quartiere Mandrione, in particolare con le comunità rom che qui vivevano in condizioni disagiate tali da impedire qualunque genere di integrazione sociale.
Roulotte, baracche: era impossibile pensare all’inserimento scolastico – presupposto essenziale per l’integrazione – senza prima provvedere e risolvere l’emergenza abitativa e le condizioni basilari di vita e igiene.
Da questa riflessione, la sperimentazione di Linda Zammataro diede vita a una vera e propria operazione politico-culturale che incise fortemente sulla stessa comunità rom del quartiere Mandrione, portando a una presa di coscienza civica la comunità. Un percorso lungo ed efficace che si concluse con il trasferimento della comunità negli alloggi popolari di Spinaceto, abbandonando così le baracche del quartiere Mandrione che, una volta abbattute, diedero il via al processo di riqualificazione e di recupero del territorio.